Vite Subacquee - Episodio 13

Ciao,
ecco il tredicesimo episodio di Vite Subacquee, la newsletter del Rifugio dell’Ircocervo che si occupa riportare a galla le opere e gli autori che hanno fatto la Storia delle riviste letterarie in Italia e che oggi sono stati dimenticati.
Vi proponiamo oggi un racconto di Maria Messina pubblicato sulla rivista La Donna nel 1912: alla sua uscita, il testo vinse il Premio Medaglia d’Oro. La Mèrica è una storia che parla di emigrazione – e mai come oggi ce n’è bisogno - , ma anche e soprattutto del dolore e della vita subacquea di chi è costretto a restare.
La Donna è una rivista nata nel 1905 come supplemento quindicinale al quotidiano La Stampa, attivo a Torino già dal 1867, e a La Tribuna di Roma. Fin dal titolo, si rivolge ad un pubblico prevalentemente femminile: in particolare, il suo target sono le donne borghesi italiane, interessate alle numerose rubriche sulla cura della casa e della persone e sulla moda.
La rivista è però anche attenta al ruolo della donna nella vita pubblica: spazi appositi sono dedicati ai profili di donne eminenti che hanno ricoperto incarichi fino ad allora di appannaggio maschile, o ad approfondimenti sul lavoro della principali scrittrici dell'epoca. La Donna, infatti, ospita scritti delle autrici più in vista italiane e straniere, tra cui Sfinge, Ada Negri e Amalia Guglielminetti.
Dal 1915, La Donna divenne una testata indipendente. Dopo la Prima Guerra Mondiale, la rivista si fece carico di raccontare il nuovo ruolo delle donne nella società, ponendo l’accento sulle nuove occupazioni femminili e integrando al suo interno i cambiamenti negli interessi delle lettrici: compaiono, ad esempio, le prime rubriche di scienze.
Nel 1922 la rivista viene ceduta a Mondadori: il target diventa un pubblico sempre più raffinato e maggiore attenzione viene dedicata alla cronaca mondana. Nel 1927, la rivista passa a Rizzoli, e nel 1942 sarà accorpata al mensile Cordelia.
La Donna cessa definitivamente le pubblicazioni nel 1968. È interessante notare che nel corso dei decenni i direttori e i principali collaboratori della rivista rimangono tutti uomini. E infatti, come dichiara fin dal primo numero, La Donna non si propone mai di diventare un giornale femminista, ma vuole cercare «l'affermazione della personalità femminile attraverso gli occhi svariatissimi delle estrinsecazioni dell'attività muliebre».
I numeri della rivista fino al 1933 sono stati digitalizzati dalla Biblioteca Nazionale di Roma.

Maria Messina nasce ad Alimena, in provincia di Palermo, nel 1887. Suo padre è un maestro elementare, sua madre, invece, proviene da una famiglia baronale del posto, «bella e facoltosa, distrutta da un cattivo vento di sfortuna», come la definirà lei stessa in una lettera a Giovanni Verga.
La situazione economica della famiglia non è florida, ma le ristrettezze economiche devono essere nascoste per mantenerne il prestigio. Maria cresce a Mistretta, in provincia di Messina, nel cuore dei monti Nebrodi, e non frequenta la scuola: viene educata in casa insieme al fratello. Fin dalla prima adolescenza mostra un forte interesse per la letteratura contemporanea: Turgenev è una delle sue letture preferite.
A vent’anni, la vita di Maria Messina cambia per sempre: alla ragazza viene diagnosticata la sclerosi multipla, la malattia che segnerà il suo destino. La diagnosi, però, determina anche il la scelta di cominciare a scrivere. Le sue prime raccolte di racconti vengono pubblicate dall’editore palermitano Sandron: Pettini-fini (1909) e Piccoli gorghi (1911). La sua determinazione a scrivere, osteggiata dai genitori, fu invece incoraggiata dal fratello maggiore.
I racconti di Messina viaggiano e finiscono tra le mani di un lettore d’eccezione: Giovanni Verga. La scrittura di questa ragazza priva di istruzione formale colpisce profondamente lo scrittore siciliano, che in quel momento aveva passato l’apice della sua carriera. Verga comincia con Messina una fitta corrispondenza e si premura per far arrivare i suoi scritti al grande pubblico.
Il primo successo è proprio la pubblicazione de La Mèrica, il racconto che vi proponiamo di seguito, sulla rivista La Donna, e la conseguente vittoria del Premio Medaglia d’Oro, indetto dalla rivista, nel 1912. Il giudice della gara è il critico Borgese, che in un saggio a lei dedicato definisce Messina «una scolara del Verga»: un complimento, nell’intenzione dell’autore, eppure anche un difficile fardello da addossarsi. Un paio di anni dopo, la novella Luciuzza comparirà sulla prestigiosa Nuova Antologia, portando finalmente l’autrice all’attenzione di un pubblico vasto.
Le novelle di Maria Messina hanno come sfondo una innominata ma riconoscibile Mistretta, il paese nei Nebrodi che le ha fatto da casa e da cui tuttavia ha faticato a farsi accogliere. In una lettera a Verga, Messina scrive di se stessa: «Son dunque vissuta sola, pur non sentendo bisogno d’alcuno, restando un po’ selvatica, un po’ estranea alla vita, pure osservando la vita». E infatti, nei suoi scritti, il ritratto della vita siciliana di provincia è quello preciso e sicuro di chi ha passato la sua esistenza a cercare di comprendere ciò che sta raccontando. Questa prima produzione dell’autrice è intrisa di quella narrazione dei vinti che la rendeva tanto vicina al Verismo.
Il lavoro del padre di Maria porta la famiglia a trasferirsi a Napoli, ma nonostante la lontananza fisica la Sicilia resterà un elemento centrale nell’attività della scrittrice. Lo spostamento sul continente non la aiuterà a integrarsi nella vita culturale del Paese: il suo principale contatto con il mondo letterario dell’epoca rimarrà la corrispondenza con Verga.
Durante gli anni della Prima Guerra Mondiale, Messina comincia a collaborare con il Corriere dei Piccoli, per il quale scrive novelle e romanzi a puntate. L’attività di scrittrice per l’infanzia correrà in parallelo alla narrativa per adulti per tutta la sua carriera. Questo impiego la porta ad intrattenere un carteggio con l’editore Bemporad, di cui ci siamo occupati in un precedente numero della newsletter.
Il primo romanzo è Alla deriva, del 1920. Da questo momento in poi, le sue opere spostano l’occhio dal mondo contadino e rusticano della prima produzione e raccontano invece le miserie della piccola borghesia. Dalla corrispondenza con Bemporad, apprendiamo il trasferimento a Firenze del 1924 e l’aggravarsi della sua malattia: l’ultimo romanzo, L’amore negato, è del 1928.
Maria Messina si spegnerà, ormai completamente invalida, a Pistoia, nel 1944.
I vinti degli scritti di Messina sono prevalentemente le donne: che siano nubili o sposate, appaiono come vittime insalvabili di un destino di obbedienza e sottomissione di cui è impossibile scrivere le regole. La sua è una poetica dell’impedimento e del silenzio: non c’è traccia nelle opere di Messina delle istanze femministe che nello stesso periodo venivano portate avanti da autrici come Sibilla Aleramo, eppure il quadro della condizione femminile che emerge dai suoi scritti è lucido e sincero.
Come nell’opera di Giselda Fojanesi, un’altra scrittrice di cui ci siamo occupati in Vite Subacquee, ugualmente legata all’ingombrante figura di Giovanni Verga, negli scritti di Messina emerge un quadro sociale in cui le cattiverie e le insidie tra donne sono conseguenza della loro necessaria reclusione: il potere viene cercato all’interno delle mura domestiche perché manca la possibilità di conquistarlo altrove.
È quel che accade a Catena, la protagonista de La Mèrica: con un destino che appare segnato già dal nome, la giovane, moglie e madre, viene separata dal marito al momento di partire insieme per la sospirata America: una malattia agli occhi le impedirebbe di essere una lavoratrice efficiente. Mentre il miraggio della partenza si allontana sempre più da lei e la guarigione viene ostacolata da medici incompetenti, Catena rifiuta di arrendersi alla terra che la reclama e vorrebbe legarla a sé…

Mariano lo disse la sera di San Michele tornando da Baronia col vecchio padre. Catena, che allattava il bimbo, si fece pallida come una morta, e rispose: «Ci son riusciti, i birbanti, a ficcartelo in testa! Ma se proprio ci vuoi andare pensa ch'io non mi son maritata per restar né vedova né ragazza dopo un anno di matrimonio!»
Mariano buttò la vanga in un canto rabbiosamente, bestemmiando; Catena, con le labbra pallide, scrollava la testa ripetendo: «Ci vengo. O ci vengo o mi butto dal Castello».
Mamma Vita, risalendo dalla stalla, li trovò a leticare. Quando si bisticciavano essa non parlava mai, per prudenza; ma come li vide accesi e sentì nominar l'America, le parve che le attanagliassero il cuore e mormorò: «Figlio, che stai dicendo?» Era curva sull'uscio, nera e piccina, con una manciata di fieno nel grembiule sollevato, e Mariano a vedersi guardato da quegli occhi chiari sgomenti, si chetò e disse: «Faccio quel che fanno tutti nell'Amarelli. E costei mi sta martoriando col suo lagno. Vedi se è possibile che una come Catena debba partire».
Mamma Vita restava immobile come se non capisse; poi si piegò sulla cassapanca coprendosi la faccia tra le mani. Catena, col bimbo addormentato sulle ginocchia, guardava, senza vedere, davanti a sé co' grandi occhi neri appassionati e dolorosi. Poi salì anche il vecchio; egli sapeva la trista decisione del figlio e andò a mettersi sulla scala senza parlare. Tutti partivano, nel quartiere dell'Amarelli; non c'era casa che non piangesse. Pareva la guerra; e come quando c'è la guerra, le mogli restavan senza marito e le mamme senza figlioli.
La gna' Maria, quella vecchia dalla testa bianca e arruffata come una conocchia, gridava davanti all'uscio la sua pena senza curarsi che la sentissero, gridava i nomi de' suoi due figlioli maledicendo l'America con tutta l'anima, con le mani alzate. La Varvarissa restava giovane giovane senza marito con una creatura al petto; e poi partiva il figlio unico di mastro Antonino, e Ciccio Spiga, e il marito di Maruzza la biondina... Chi poteva contarli? Partivan tutti e nelle case in lutto le donne restavano a piangere. Pure ognuno possedeva un pezzo di terra, una quota, la casa, pure ognuno partiva. E i meglio giovani del paese andavano a lavorare in quella terra incantata che se li tirava come una mala femmina. Ora anche Mariano. E Mariano aveva un poderetto che dava pane e olio, un poderetto zappato e lavorato come un giardino, e la moglie giovane, bellina, dolce come il miele. Quel che avevano fatto per trattenerlo, per levargli il pensiero della Mèrica, non si rammentava più. Aveva voluto il mulo e ssù 'Nntoni glie l'aveva comprato; mamma Vita gli aveva cucito un altro vestito di velluto e Catena non aveva saputo che dirgli per tenerselo legato. Ma l'America, diceva la gna' Maria, è un tarlo che rode, una malattia che s'attacca; come viene il tempo che uno si deve comprare la valigia, non c'è niente che lo tenga.
In quella grigia serata di San Michele, i vecchi pensarono che questo tempo era venuto anche per Mariano. Ma Catena con gli occhi fissi davanti a sé non si voleva persuadere a restar sola; con la piccola faccia olivastra abbuiata di passione e di paura, pensava di seguire il marito. Pensava: e pareva che il pensiero fosse una ferita, fosse una febbre, tanto le dolevano le tempie e il cuore.
Dopo quella brutta serata, gli altri giorni ancora seguitò a dire, implorando con gli occhi e minacciando con la voce: «Ci vengo. Se parti, parto anch'io. O mi butto dal Castello».
Mamma Vita non seppe darle torto: «È giusto, è giusto...» ripeteva con voce rassegnata.
«Ma il bambino!» gridava Mariano indispettendosi d'essere contrariato anche dalla madre. Il bambino!
Era vero. Si poteva uccidere un piccino con un viaggio tanto lungo?
«Oh!» implorava Catena. «Non sono mamma io? Lo terrò nel mio scialle, lo terrò sul petto come un uccellino nel nido. Non ci pensate.»
Tristi giorni! Marito e moglie non fecero che bisticciarsi. Ma poi vinse Catena, e quando Mariano comprò la valigia a mantice e cominciò a prepararsi le sue robe, Catena tremante ma decisa ordinò le proprie e quelle del piccino.
C'era nel suo viso un pallore di bimba spaurita. Spiava tutto e tutti, continuamente in palpito che all'ultimo momento qualche cosa impreveduta, un tradimento di Mariano, la facesse restare. E nella valigia confondeva furiosamente la biancheria sua con quella del marito per stabilire da vero la propria partenza. Solo la sera che le valigie furon pronte e Mariano le mostrò i due biglietti, si rasserenò e gli occhi le tornaron dolci e ridenti come sempre.
Allora solo cominciò a sentir la pena della partenza e le parve mill'anni che ne venisse l'ora per levarsi dalla casetta dove era stata felice un anno – dopo i maltrattamenti subiti in casa del patrigno e della sorellastra – per levarsi dalle lacrime della gna' Vita, che le aveva fatto da mamma, e dal dolore muto e profondo di papà 'Ntoni.

Quando furon partiti, ssù 'Ntoni tornò al podere: la terra non si può abbandonare. Mamma Vita l'aiutò – come al solito – a incavezzar l'asino, e gli dette un pane.
«Io non vengo» aggiunse. «È come se m'avessero dato un carico di legnate.»
Rientrò curva nella casetta, e chiuse uscio e finestra come quando c'è lutto. «Che farò d'ora innanzi?» pensava guardandosi intorno «avevo due mosche e mi son volate via». A che serviva lavorar la terra? A che serviva filare il lino e tesser la tela, d'ora innanzi? Si figurò mestamente il vecchio 'Ntoni che, solo e afflitto, seminava il buon frumento d'oro lassù a Baronia, nella bella terra solatia che il figlio aveva male apprezzata. E rivide la scena della sera innanzi; eran partiti a mezzanotte; non c'era luna e a pena si scorgevano i due carretti pronti, nello stradone, già occupati dagli altri emigranti; i carretti pieni che s'erano allontanati nella notte buia, col canto dei giovani e il tintinnio delle bubbole.
«Poveri figlioli!» sospirò forte col cuore stretto.
Ssù 'Ntoni la sera, scavezzando l'asino, ripeté: «Vita, la terra vuole braccia, e io che son vecchio non basto.»
«Sì» rispose la gna' Vita «ma io voglio aspettare la lettera. Come posso pensare al podere, mentre non so neanche se quelle creature sono in viaggio?»
Il cuore glie lo diceva; di fatti la lettera da Palermo le portò una strana notizia inaspettata. La lesse il postino; e lei la tenne a lungo fra le mani – fra le povere mani ignoranti, brune e rugose di fatica e di vecchiezza – guardando le poche righe nere e contorte come avesse potuto capirne il senso.
«Al peggio non c'è fine» disse tristamente al marito la sera. «Quel figlio bello come una bandiera parte e la moglie torna!»
Addio sementa, addio podere! Con le mani e i piedi legati, non poteva più neanche seguire il vecchio, lassù a Baronia che aveva bisogno di braccia. Che farsene d'una giovane e d'un piccino?
Catena tornò di sera, in diligenza; gialla, spettinata, con le labbra pallide e gli occhi lustri, pareva malata, pareva avesse la febbre. Posò il bimbo sul letto e si lasciò cadere sulla cassapanca con le braccia sulle ginocchia sconsolatamente. Mamma Vita prese fra le braccia il bimbo che piangeva, per chetarlo; e nel sentirselo di nuovo sul petto provò una dolcezza grande come se con quella piccola creatura fosse tornato qualche cosa di Mariano.
«Ma com'è andata, Catena?» le chiese. La nuora taceva. «E gli altri, Catena?» La nuora taceva. Il bimbo pianse più forte per la fame.
«Dammelo» disse bruscamente la giovane.
«No. Hai il latte cattivo, in questo momento. Ti par che non ti capisca, io?»
La voce piana e tremante della vecchia le scese nel cuore, e Catena cominciò a piangere e a raccontare confusamente, calmandosi a poco a poco per il benefico sfogo. Era stata una giornata d'inferno. Erano in venticinque, con quella demonia della sorellastra. E tutti per le vie, per le vie grandi della città; storditi dal chiasso, accecati dalla polvere e stanchi, specialmente stanchi, da buttarsi a dormire per terra, e tutti uniti e sbigottiti come anime del Purgatorio, come non avessero anche loro, in paese, una casa propria; scansando carrozze con cavalli, e carrozze senza cavalli che arrotano un cristiano come niente, rimandati dal piroscafo, rimandati dal medico che doveva visitarli. Finalmente li avevano esaminati, a uno a uno. Lei era stata l'ultima ed era andata così sicura dopo che ognuno era stato accettato!
«E poi... Capisci?» gridò «dopo la vergogna di farti vedere da quel medico forestiero, sentirti dire che hai gli occhi malati! Io! Gli occhi miei che sono stati l'invidia di tutti!...» Parlava a tratti, senza finir le parole rotte dai singhiozzi che le straziavano il petto. «Non ho pianto, lì. No. Ti ho scritto. Non ho alcuno, io. Non madre, non fratelli, nessuno. Li ho visti salire sul vapore, tutti, a uno a uno. Anche quell'altra, capisci! che mi rideva sul viso salutandomi!»
E Mariano!? Neanche una parola buona, una sola parola d'incoraggiamento! Aveva pensato a farle il biglietto di ritorno, oh quello sì! Di modo che a pena partito il vapore, uno della stazione l'aveva accompagnata sino al treno.
«E la roba?» La roba! Come si vedeva che mamma Vita non aveva idea di quel che fosse una città! Chi poteva aprir la valigia e cercar la roba in quell'inferno? Mostrò alla suocera una ricetta. Glie l'aveva fatta il medico. Bisognava mettere, ogni mattina, poche gocce del rimedio ordinato, sugli occhi; poteva medicarli un farmacista, una persona pratica qualunque.
«M'ha assicurato che dopo un mese di cura sarò guarita.»
«Hai veduto?» esclamò la vecchia dondolando il piccino per tenerlo buono «non è poi finito il mondo...» Catena crollò la testa. E il tempo che sarebbe passato tra la cura e il viaggio? E quelli, laggiù? quella demonia di Rosa che s'era tirato Mariano con un fil di seta, che gli aveva messo in mente il pensiero della Mèrica? Davanti agli occhi le apparì la figura flessuosa della sorellastra, il bel corpo dalla vita sottile e dal petto procace, il viso olivigno dalle labbra rosse e dal riso sfrontato.

Per la cura non volle perder tempo. E l'indomani, a pena papà 'Ntoni si fu avviato a Baronia, la gna' Vita mise la mantellina in testa e il bimbo in collo per accompagnar la nuora da don Graziano il farmacista. Insisterono perché cominciasse le medicature subito, quella mattina stessa. Il vecchio s'aggiustò gli occhiali, e fatta seder la giovane, tenendole la fronte con una mano, con l'altra le fece gocciolar sugli occhi una medicina che aveva preparata.
«Poche gocce, ha detto» mormorò Catena mordendosi le labbra mentre la medicina le inondava le tempie e le orecchie.
«Don Graziano» ripeté mamma Vita più forte poi che il vecchio era mezzo sordo «poche, poche gocce.»
«Zitta, voi» rispose impermalito il farmacista «se non m'avete fiducia cercatevi un altro medico.»
«Vossìa ci scusi» pregò la giovane «gli è che avevo letto la prescrizione.» E seguì la suocera tenendosi il fazzoletto sugli occhi pe 'l gran bruciore che provava.
Mattina per mattina le due donne andavano da don Graziano. Dopo una settimana di quella tortura la suocera domandò: «Ma ti giova, il medicamento? A me pare che ti faccia più male che bene.»
«Volevo dirlo anch'io» sospirò la nuora. «Non avevo mai patito male agli occhi e ora me li sento pungere da cento spilli.»
Che fare? Forse il meglio era smetter la medicazione e domandar consiglio a un medico. Però mamma Vita andò sola a ringraziare il farmacista portandogli un paio di pollastre rosse, scelte fra le più belle del pollaio, e poi andò con la nuora da don Pidduzzu Saitta, ch'era il medico più anziano del paese. Egli osservò Catena, che lo guardava sgomenta, poi le sollevò un poco, delicatamente, le palpebre indolenzite.
«Chi ve l'ha curati?» chiese.
«Don Graziano.»
«Il farmacista?»
«Sissignore.»
«Benedetti villani!» mormorò il medico. «E voi volete andare alla Mèrica?»
«Sissignore.»
«Speriamo. Tornate domattina alle nove. Proveremo a causticare.»
Catena seguì la suocera con la morte nel cuore; e a pena a casa buttò la mantellina sul letto e, nascosto il viso fra le materasse abballinate, cominciò a piangere angosciosamente come la sera in cui era tornata da Palermo. Mamma Vita, in piedi, col bimbo addormentato fra le braccia, non sapeva che dire per calmare quel pianto. «Senti» disse poi risoluta, «Saitta è un corvo di malaugurio. Vede le cose peggio di quel che sono. Io non ci tornerei più. C'è Panebianco, sai? Quello è il medico dei poveri!»
Catena levò il viso umido di lacrime e guardò la suocera con un po' di speranza. «Dopo pranzo ci andiamo» asserì la vecchietta, «coraggio, figlia, credi che non ti capisca?» E la guardò con tanta mestizia nei piccoli occhi chiari, perché, lei, le voleva bene proprio quanto a una figlia. «Guarda che boccio di rosa» disse chinando la testa sul bimbo addormentato «e come gli somiglia! Perché piangi, tu?» la confortò sospirando «tu hai il tuo piccino e rivedrai tuo marito. Io son vecchia, vedi, e mi son divisa viva da quel figliolo che non vedrò più. E io pensavo di tenerlo sempre con me, e tessevo la tela per la sua famiglia. Ora è finita. Non vedi ssù 'Ntoni com'è diventato? e la bella terra di Baronia com'è desolata?»
Nel pomeriggio andarono da Panebianco per l'ultima prova. Panebianco, grasso bracato, rise come quando gli si portava un regalo e poi osservò lungamente gli occhi di Catena, palpandole le guance con le sue dita massicce e leggere. «Rovinati?» andava ripetendo col suo fare d'uomo che trova tutto facile. «Rovinati? La vedremo noi! Alla fine del mese partirete.»
Mattina per mattina, col bimbo in collo, andarono da Panebianco; e sempre mamma Vita portava sotto la mantellina un cestino d'ova o di frutta, un sacchetto di frumento, un pollastro, un par di piccioni torraioli, perché Panebianco, il medico dei poveri, accettava ogni cosa. Ma gli occhi andavano di male in peggio; e Catena, levandosi, vi teneva un pezzo il fazzoletto per abituarli alla luce. Non ne poteva più; cominciò a diffidare anche di Panebianco e volle cambiar medico. Verso la fine del mese giunse la lettera di Mariano. Cominciava a guadagnare; erano trentacinque, tutti Mistrettesi, e stavano insieme; anche le donne s'erano impiegate. Tutte notizie che le parvero schiaffi. Lesse e rilesse la lettera diverse volte, piena di rabbia. Egli appariva lieto e la gna' Vita ripensò alle amare parole della gna' Maria quando disse, un giorno, che i figli, una volta laggiù, si scordano sino della mamma che li ha fatti. Catena disperò della sua partenza e non credé più ai medici; tutti birbanti, tutti imbroglioni, buoni a smungere il sangue ai poveri. Il solo Panebianco aveva avuto sei polli e non si sa quanta frutta e quante uova.
Nella piccola casa di ssù 'Ntoni i giorni passavano pieni di malinconia. Non c'era festa né processione per le due donne; sempre casa e casa, la domenica in chiesa a pregar davanti l'altare di Santa Lucia.
Ssù 'Ntoni, poi che la moglie non poté seguirlo, si era cercato un mezzaiolo, un compagno che l'aiutasse a lavorar la terra. Egli parlava sempre meno, col pensiero fisso al suo figliolo bello e forte come un querciolo, che lavorava per gli altri.
Il piccino cresceva male, stento stento, un po' perché aveva avuto il latte cattivo, un po' perché, in vece di giocare con gli altri piccini, passava dalle braccia della nonna a quelle della madre, essendo egli tutto ciò che fosse rimasto di Mariano.
Catena, ch'era diventata selvatica, rifuggiva anche le vicine. Nella piccola faccia olivastra, scarnita come se ci fosse un fuoco dentro che la consumasse, gli occhi apparivan più grandi, più neri pe 'i calamai lividi che li cerchiavano. Non amava più neanche lavorare, benché fosse stata sempre la più laboriosa dell'Amarelli. Passava le sue giornate accoccolata sullo scalino davanti l'uscio, mentre mamma Vita filava o rattoppava, ascoltando il parlottar del bimbo che aveva imparato a chiamare papà; e tutte e due senza dirselo mai, tenevan gli occhi alla cantonata dalla quale soleva spuntare il postino, trasalendo se lo vedevano avvicinare alla loro casetta.
Ma lettere ne venivano sempre più raramente. E Catena non si sfogava più neanche con la suocera; nella testa le si agitavano tanti pensieri che le facevan battere le tempie come avesse la febbre; pensava alla Mèrica, alle case alte e alle strade buie, pensava a Mariano giovane e forte, alla buona terra di Baronia, e rivedeva la bella e sfrontata persona della sorellastra. Le vicine non riuscivano mai a farla chiacchierare un poco. Ma certe volte udivano la sua voce, fattasi tanto strana e acuta; l'udivan parlare al suo bimbo come avesse potuto capirla, dandogli un brusio di nomignoli bizzarri, con accento alterato mutevole e frenetico. «Stella, tesoro, Cavaleri finu, San Giorgiu biunnu. Apuzza nica. Tu mi ristasti. Chiamalu, papà, chiamalu ca è luntanu...»
Il piccino sulle prime, sollevato dalle braccia nervose della madre, rideva, ma, soffocato dalle impetuose carezze, finiva col piangere.
Una mattina vedendo passare la gna' Maria le chiese se avesse due corbelli per metterci l'uva e i fichidindia da portare a Mariano.
«I fichidindia gli piacciono tanto, e laggiù non ce n'è... Sì, parto col bimbo» disse sbarrandole in faccia i grandi occhi neri spauriti. «Io lo so, adesso, come si viaggia!»
E sì come la gna' Maria scrollava la testa, essa le voltò le spalle, stizzita, e sedette di nuovo innanzi all'uscio.
Lettere non ne venivano e gli occhi non guarivano. Pure s'eran fatte tre novene e offerte due torce a Santa Lucia, ma la santa non aveva voluto far la grazia. Oramai non c'era più speranza di guarire. E Catena era diventata così stizzosa che la povera mamma Vita solo per la gran pietà e l'affetto non la contrariava mai. Una mattina, era proprio un'altra volta il giorno di San Michele, la gna' Vita chiuse l'uscio perché faceva freddo. La nuora che, non si sa perché, era scesa nella stalla, le disse tornando: «Ma', vai a prendermi i corbelli che m'ha promesso la gna' Maria per metterci i pomodori e i fichidindia.»
«Che dici, Catena? non è più tempo di pomodori questo!»
Catena aprì l'uscio con violenza tenendo il bimbo per mano.
«Che fai? Non è più estate, vien freddo! Come sei diventata dispettosa, figlia! Non ne hai più, cuore, nel petto!»
Catena la guardò. Nella faccia olivastra non si vedevano che gli occhi dalle palpebre gonfie e livide come due macchie. Sedette sull'uscio, si mise il piccino sulle ginocchia e facendolo ballare cominciò a dirgli, prima piano, poi più forte, poi con la sua voce strana e acuta che feriva le orecchie: «Stella, tesoro, apuzza nica, spica d'oro! Chiamalu, papà! chiamalu ca è luntanu! Stella! Cavaleri finu...»
Lo stringeva forte tra le piccole mani nervose, alzandolo per aria, e il bimbo si divincolava e piangeva. La gna' Vita, spaventata, s'accostò per levarglielo ma Catena stringeva forte, come tra due morse, e la povera vecchia non ci poteva. Accorsero anche le vicine incuriosite dal vociar delle donne e dal pianto del bimbo; pregandola, minacciandola glie lo strapparono di mano, a costo di fargli male, mentre Catena ripeteva, ridendo, co' grandi occhi sbarrati: «Tesoro! Stella! chiamalo, chiamalo...»
Credevano che morisse con le convulsioni com'era morta sua madre. Ma poi si calmò. E mai più si ripeterono i furori di quella mattina. Non riconosceva il figlio, non riconosceva la suocera ma non dava fastidio ad alcuno. Passava le intere giornate accoccolata sull'uscio, senza sentire il freddo del rovaio, col mento tra le mani; e se una vicina le si accostava essa spiegava – con un sorriso strano nel piccolo viso scuro – come aspettasse il vapore, di laggiù. «Vedete?» indicava «laggiù nel mare grande grande il vapore che fuma e che fischia...»
I corbelli con l'uva e i fichidindia eran pronti.
«Parto domani. Son guarita» aggiungeva toccandosi gli occhi con le palme aperte. «Son guarita. Vedete? Parto domani...»

L'opera di Maria Messina scivolò lentamente nell'oblio dopo la morte dell'autrice. Il recupero dei suoi scritti è avvenuto grazie all'interesse di un altro scrittore sicialiano, Leonardo Sciascia, che nei primi Anni Ottanta la definì una Katherine Mansfield siciliana. L'opera di Messina suscitò così la curiosità dell'editore Sellerio, cui si deve la riedizione di molti suoi libri.
Alcuni scritti di Maria Messina sono disponibili gratuitamente su Liber Liber.
La bibliografia delle opere è stata ricostruita da Patrizia Zambon per il dipartimento di Italianistica dell'Università di Padova.
Tra i molti approfondimenti critici comparsi sull'opera dell'autrice in seguito al suo recupero negli Anni Ottanta, vi segnaliamo in particolare questo lungo studio di Lucio Bartolotta. Una ricca analisi della poetica di Maria Messina, a partire dai racconti di Ragazze siciliane, è stata condotta da Anna Lo Piano su Osservatorio Cattedrale.
A Maria Messina è dedicata una puntata del podcast Italiane, curato dal Ministero per le Pari Opportunità.
Speriamo che questo tredicesimo episodio di Vite Subacquee vi abbia fatto una buona compagnia: la prossima puntata arriverà in inbox ad Aprile. Nel frattempo, pubblichiamo regolarmente interviste, recensioni e approfondimenti letterari su Il Rifugio dell’Ircocervo.
Nell'ultimo mese, in particolare, ci siamo occupati dell'ultimo ripescaggio letterario di Cliquot: Le droghe, romanzo dimenticato e trascurato di Laudomia Bonanni. Qui l'articolo di Loreta Minutilli sul libro e sulla sua autrice.
Il 25 febbraio ha debuttato Oasi, il decimo numero della nostra rivista di racconti lunghi. Ha firmato l'Ouverture Gianmarco Perale: ci rende quindi particolarmente felici apprendere il suo imminente ritorno sugli scaffali con il romanzo Amico mio, per NN Editore.
Tra gli autori di cui si è occupato il blog in questo mese ritroviamo un'altra nostra vecchia conoscenza, la scrittrice Claudia Grande: ora in libreria con il suo romanzo d'esordio, Bim bum bam ketamina, è anche autrice di Kodomo no gemu, un racconto pubblicato sul primissimo numero della nostra rivista.
Continua il nostro supporto per la presentazione al Premio Strega dell'opera Sillabario all'incontrario di Ezio Sinigaglia, autore dell'Ouverture del nostro secondo numero: presto in arrivo una lunga intervista sul suo lavoro unico e peculiare.
Vi segnaliamo un nuovo, entusiasmante progetto all'attivo che ci vede coinvolti insieme ad altre sei riviste letterarie per un obiettivo ambizioso: portare le riviste al Salone del Libro di Torino con uno stand dedicato e una pubblicazione collettiva. L'idea parte da romanzi.it, che l'anno scorso ci aveva già permesso di realizzare la nostra prima edizione cartacea: per saperne di più sul progetto e supportarlo, ecco il link al nostro crowdfunding su Produzioni dal Basso. Intanto, un piccolo spoiler: lo scrittore da noi selezionato all'interno della raccolta è Ignazio Caruso, già autore dello splendido Adeu per Giulio Perrone Editore.
Fra i recuperi letterari in arrivo nei prossimi giorni, vi segnaliamo la riedizione di Althénopis, il capolavoro di Fabrizia Ramondino che tornerà in libreria per Fazi Editore. L'editore aveva già cominciato il recupero delle opere di Ramondino: questa edizione sarà impreziosita dalla prefazione di Chiara Valerio. Per approfondire la vita e le opere di questa straordinaria autrice, consigliamo l'episodio del podcast Mis(s)conosciute a lei dedicato.
Per tenerti in aggiornamento su tutte le nostre attività, seguici su Facebook e Instagram. Ora siamo anche su Telegram: nel nostro canale troverai anticipazioni, approfondimenti e aggiornamenti sulle nostre attività e sul mondo della letteratura.
A presto,
Gli Ircocervi